medium




penna.gifA me piacerebbe che nel sito della Pionieri si raccontassero un po' di aneddoti, storie accadute a ciascuno di noi nel corso della nostra naja alpina. Per esempio, la rievocazione di alcuni personaggi, come quella fatta dal gen. Pagano a proposito del serg. maggiore Peres, mi sembra un bell'esempio di quello che intendo: ricca di umanità, ma priva di alcuna reticenza. Quel che ha da dire, nel bene e nel male, il gen Pagano lo dice; e io mi tolgo il cappello.

Chissà se si può raccontare quello che oggi viene in mente a me. Credo di sì, a patto che ci si ricordi di almeno due circostanze: la prima, che io, come molti giovani universitari di quel tempo (il 1968/69), stavo nettamente a sinistra; la seconda, che il Capitano, ora Generale, era un giovane ufficiale, al suo primo vero comando, e quasi naturalmente interpretava il suo ruolo con una dose in più di autoritarismo: quella che, penso, gli era necessaria per sentirsi sicuro di sé nel nuovo compito di Capitano della Compagnia Genio Pionieri della Tridentina, composta di gente non particolarmente inclinata alla disciplina marziale. Insomma, sia lui che io eravamo giovani, e ciascuno con le sue vedute.
Io ero arrivato da Cuneo nell'autunno del 1968. Non sapendo che farmi fare, perché da un po' di tempo, appena arrivavo in un posto, subito arrivavano su di me anche le segnalazioni dei Carabinieri come se fossi un soggetto pericoloso (in realtà, ero solo un iscritto al PCI, non un acceso contestatore, e nemmeno frequentavo più l'Università: ma i tempi erano quelli), alla Pionieri scelsero per me il compito di "aiutante di sanità". In coerenza con i miei studi letterari. Mi spedirono subito a Verona, per un corso presso l'ospedale militare, dove imparai a passare la segatura sulle scale, a lavare i vetri con i giornali vecchi, a piantonare il reparto neuro, a caricare e scaricare merci dai camion e, armato di baionetta, a fare le guardie di notte sotto il portone: di certo, ritornai a Bressanone senza sapere come fare una fasciatura o un'iniezione; e i rudimenti, infatti, mi furono insegnati dal "vecio" aiutante di sanità direttamente "in corpore vili", cioè sulle caviglie e sulle chiappe dei commilitoni. Intanto, però, avevo evitato il campo invernale.
Alla Pionieri, nella caserma Vodice di Bressanone, non avevamo il medico. Ogni mattina, rilevati i chiedenti visita, facevo telefonare alla Caserma Schenoni di Varna, che ne mandava uno. Da lui cercavo di imparare quanto servisse al mio compito, perché, sarà stato anche per l'ideologia, io ci tenevo alla salute dei miei compagni di naja. Su questo non avevo dubbi: ero disposto ad alzarmi in qualsiasi momento della notte, se era l'ora di una "puntura". In questo campo non mi permettevo di dirmi: fregati, è naja. A mie spese acquistavo gli aghi pic indolor ("già fatto ?!"), perché quelli in dotazione davano l'impressione di essersi coperti di gloria a Nikolaevka. Questi li usavo solo sui commilitoni e i sottufficiali prepotenti e antipatici. Divorare le lacrime in silenzio: allora non esistevano le siringhe usa e getta. Appena arrivata l'estate, un buon numero di noi, me compreso, fu mandato al Pederù per fare quella gloriosa strada sul conoide di deiezione che precipita giù da Fodara Vedla. Mi eressero una magnifica tenda, di quelle da uffici di stato maggiore, ad uso infermeria. Qualcuno dei pionieri mi costruì un rudimentale armadietto per i medicinali: è incredibile quante cose sapessero fare i pionieri, che erano direttamente passati alla naja dal lavoro: falegnami, elettricisti, fabbri, idraulici, cavatori, muratori, ecc. Davvero sapevano fare, e bene, qualsiasi lavoro.
Ma, lavorando su quella strada, tutti i giorni qualcuno si faceva male. Intendiamoci, niente di grave: un dito schiacciato da una pietra, una caviglia distorta e niente di più. Potenzialmente, i pericoli erano anche gravi: c'era chi risaliva col muletto certe pendenze che lo potevano ribaltare;| chi guidava i camion su per quei tornanti a filo del precipizio, con le ruote mezze dentro e mezze fuori; chi perforava col martello pneumatico le sedi per l'esplosivo, chi, poi, l'esplosivo, le micce e i detonatori li maneggiava davvero e faceva le volate e volavano, davvero, dei massi grossi come utilitarie : ma di grave non successe mai nulla, grazie a Dio. E poi, nell'accampamento, era facile prendersi qualche malanno, perché al Pederù ricordo che ancora a giugno faceva un freddo cane sotto la tenda e spesso pioveva, e qualche volta nevicava in piena estate. Io ricordo che a me non bastavano le coperte assegnatemi e nemmeno quelle mendicate in magazzino. E mi infilavo i mutandoni ruvidi della naja.
In quelle condizioni, parecchi "marcavano" visita. Io facevo il giro delle tende prima dell'adunata: se capivo che i malati veri erano troppi, cercavo di convincere gli altri ad alzarsi, per evitare che il Capitano li mandasse tutti su per la strada, malati veri compresi, a calci nel culo. Se invece nessuno si diceva ammalato, chiedevo se qualcuno volesse approfittarne per riposarsi un poco. Io approfittavo così dell'assenza del medico: ma ero indignato che non ci fosse. Capitò una sera un'appendicite, e si dovette caricare la branda sul camion e correre a San Vigilio per avere le prime cure da un medico privato. Per questo ogni mattina, all'adunata, si svolgeva una scenetta tra me e il Capitano. Lui domandava quanti pionieri chiedevano visita. Io ne dicevo il numero. Lui chiedeva: che cos' hanno ? E io: non lo so; posso dire che cosa denunciano di avere, per esempio il tale e il talaltro hanno 38 di febbre, ma per sapere cosa abbiano ci vorrebbe il medico. Io non posso fare né diagnosi né prognosi: sono solo l'aiutante. (Il mio scopo era di fare arrivare un medico in Compagnia).
Con quello che avevo carpito ai medici giù a Bressanone, riuscii anche a far "sparire" un pioniere che proprio non ce la faceva. Era piccolo, debole: "on poro can", come l'avrebbero definito con la loro umana crudezza i pionieri veronesi. Non ce la faceva, davvero. Gli dissi: adesso ti faccio portare a Brixen. Tu devi dire al medico (meglio se ti capita il colonnello) che hai avuto la febbre alta e che ti si sono gonfiate tutte le giunture: vedrai che ti mandano a Bolzano all'ospedale e poi ti danno un bella licenza. A Bressanone avevo capito che il reumatismo articolare acuto spaventava assai i medici, che temevano lo "screzio cardiaco"; e ne sortivano delle belle licenze di convalescenza.
Verso agosto avevo tre o quattro "feriti" che non guarivano: un paio di caviglie ormai di colore blu tendente al nero, nonostante le fasciature e la vegetallumina, e un dito schiacciato, che era diventato un tronco di cono bluastro con la base maggiore proiettata verso il cielo. Io lo dicevo al Capitano: ma c'era sempre una ragion pratica per rimandare. Uno, un mantovano, gli guidava la campagnola, l'altro guidava un camion che faceva non so che importanti trasporti, l'altro non mi ricordo più, ma anche lui era insostituibile. A furia di insistere, un bel giorno il Capitano mi dice: sarai contento, domani puoi portare i "tuoi" malati a Brunico. Signorsì, gli dico: con che mezzo ci andiamo ? Andate con la mia campagnola e la guida il mantovano (quello che aveva la caviglia blu). E andiamo. A Brunico, aspettiamo quanto basta e poi ci troviamo al cospetto del ten.col. medico. Il quale dà un'occhiata ai malati e mi chiede: "Solo adesso me li porti ?". Mio imbarazzo. E lui: "Allora, questi vengono tutti ricoverati e subito". E io: " E io come ritorno al campo, che uno è l'autista?" E lui: "Cavoli tuoi. Di che Compagnia sei ?". E io, sull'attenti: " Genio Pionieri Tridentina Bressanone, distaccamento del Pederù". E lui: " Ah, li conosco quei menarrosto della Pionieri. Allora riferisci che i tuoi malati sono tutti ricoverati". Signorsì, e me ne vado. Mi compro qualcosa da mangiare allo spaccio. Non so come chiamare il Pederù, che comunica solo per radio. Sto a ponzare seduto al sole sulla campagnola che saprei, ma non posso guidare. Poi ho l'illuminazione: trovo e pago i gettoni e faccio il numero di telefono della Vodice. Parlo, spiego, spiego e parlo. Dopo un po' capiscono. Avvertiranno loro il Pederù. E io a raccomandarmi: che mandino due autisti, perché uno serve a riportare la campagnola. Cinque ore dopo arrivano i nostri e finalmente sono "libero".
Il giorno dopo vado "a rapporto" dal Capitano. Gli racconto il perché e il percome. E poi, siccome prima di partire soldato avevo letto tutti i libri sul buon soldato S'veik, il boemo che avrebbe dovuto combattere per l'Austria-Ungheria, ma che quanto più si dimostrava docile, ubbidiente e devoto, tanto più faceva uscire di senno i suoi ufficiali austriaci, dico: " Ci sarebbe anche una cosa spiacevole da aggiungere; ma non so se sia il caso di dirla". "Cosa?!". "E' che il signor Colonnello ha fatto degli apprezzamenti negativi sulla nostra Compagnia". "Cosa??!!". "Non so se posso dirlo, ma ci ha definiti menarrosto. Lo dico perché penso che non tocchi a me togliere o aggiungere niente a quello che è mio dovere riferire". E subito il Capitano, fremente, mi congedò.
Due settimane dopo arrivava il sottotenente medico. Con il quale mi divertii tutta l'estate, perché era matto come un cavallo.




Quando, finalmente, arrivarono alla Vodice i nostri nipoti e noi, da filtri che eravamo, diventammo veci, tutti i giorni compariva nel mio posto di medicazione un sudtirol disceso con la piena del fiume non so bene da quale valle. In realtà sembrava essere piuttosto sofferente. Il tipo mi colpiva, perchè in generale, gli altri sudtirolesi erano ragazzi ben costruiti, che non temevano nè la fatica nè il freddo, tanto che, qualche volta, mi veniva da pensare: fortuna che adesso sono quieti, perchè se gli venisse ancora in mente di non stare più con l’Italia, ce ne farebbero passare delle belle.
A dirla tutta, noi eravamo alquanto stronzi (parola che uso visto che Ë stata sdoganata in alto loco) e i sudtirolesi li chiamavamo “tralicci”, perchè diversi anni prima la loro frangia più nazionalista aveva fatto saltare con il tritolo dei tralicci delle linee elettriche e mi pare che ci fosse anche scappato qualche morto. Solo io non mi permettevo di usare una simile espressione, per via della mia ideologia internazionalista. Ma non riuscivo a fare amicizia, a causa della lingua. Questa cosa mi fa venire in mente una canzone di Paolo Conte, “La ricostruzione del Mocambo”, quando dice all’incirca: adesso sto con un’austriaca, ma tra di noi non c’è dialogo. Io non parlo bene il tedesco, scusi pardon…”. La situazione insomma era più o meno quella, con i sudtirolesi. I veneti se la sbrigavano, con chi parlava tedesco, con un: “No sta a parlar tralicio diocan”. Ammetto che non era una bella cosa, e a me non dava nessun piacere. Ma le cose stavano così, e così le dico.
Dunque, questo nipote arrivava e dichiarava nel suo italiano: “Fanno male piedi, fanno male finocchi, dio p…”, e allora gli facevo l’iniezione di vitamina B, come aveva prescritto il medico per il suo caso. La cosa andò avanti per una quindicina di giorni, e poi non ricordo di averlo visto più.
Ma da allora mi sono sempre chiesto perchè mai, quando gli veniva da bestemmiare, i sudtirolesi ricorressero alla lingua italiana. I veronesi, che pure leggevano il giornale che tutti i giorni gli mandava la Curia, “Verona fedele”, usavano tutti i “can” del loro vocabolario per imprecare , senza distinguere tra santi e fanti. E così i mantovani, i toscani, i trentini,i bergamaschi. Ognuno nella sua lingua.
Ma i sudtirolesi no: a questo scopo ricorrevano all’italiano. Immagino che fossero dei devoti cristiani timorati di Dio come quasi tutti gli altri pionieri: ma forse il peccato mortale della bestemmia, se commesso in una lingua diversa da quella dei loro avi, gli pareva derubricarsi a veniale.
Io non lo pongo come problema religioso, ma piuttosto linguistico. Mi piacerebbe assai che qualche vecchio commilitone di lingua tedesca, visitando questo sito, che ritengo appartenere a lui come a tutti gli altri, ci dicesse se quello che allora notavo fosse vero, e in tal caso ci dicesse il suo perchè.

Gian Piero Testa     
penna.gif


        Torna alla pagina dei racconti

Privacy Policy

Cookie Policy

vodice
Vodice.it-disclaimer